la Sezione bolognese romagnola

Conferenza < scarpona >

di Giuseppe Martelli

pubblicato il 1° marzo 2005

 

Nella cronaca che compare sul giornale “L’Alpino” del 1° gennaio 1924, che riporta il resoconto della cerimonia avvenuta domenica 16 dicembre 1923 per l’inaugurazione del “Gagliardetto” (oggi Vessillo) della neo costituita Sezione bolognese romagnola, si legge che fra i presenti vi è Paolo Monelli. (1)

Così si legge nella cronaca <…ha preso la parola Paolo Monelli, il quale ha rievocato con molta verve la vita di guerra degli alpini, sfrondandola di ogni contorno retorico e svelando l’anima buona e semplice dei nostri scarponi, che vanno alteri di essere “i muli del governo”. Non è possibile riassumere il discorso brillantissimo di Monelli: diciamo soltanto che egli non poteva meglio assolvere il compito che si era assunto di parlare da alpino agli alpini, lasciando da parte i vieti luoghi comuni, dicendo delle verità che di solito nessuno ha il coraggio di dire, e andando diritto al cuore. La fine del suo dire, che è una rinnovata promessa di fedele devozione alla patria, è salutata da un applauso entusiastico >.

 

Amici Alpini, ogni anno queste nostre adunate, richiamano attorno ad un cosiddetto oratore ufficiale, designato per disgrazia sua da una combriccola d’amici in bisboccia, richiamano attorno ad un organetto ufficiale la solita folla di alpini in congedo. E tutti accorrono con il corredo antico e nuovo e con gli accessori che gli anni hanno lasciato o portato in più, moglie, amorosa, pancetta, figliolanza e via dicendo. E poiché in fondo noi ci raduniamo soltanto per avere un pretesto per ricordare, ricordare il più monotonamente possibile, quel nostro meraviglioso passato, il compito di quel poveruomo dell’oratore ufficiale sarebbe tanto semplice quanto piacevole. Si tratta infatti, con quel poco di parlantina che gli valse tante volte gli arresti di rigore al battaglione, di aiutare la corrente dei ricordi a disincepparsi dai cervelli arrugginiti o logorati dalla vita del dopoguerra: in questa vita che ci pose tante volte assieme finché non viene il sospetto che siamo noi inadatti per essa, questa vita del dopoguerra che ha distrutto i miti e sono ancora al mondo i personaggi dei miti stessi: gli eroi per parlare schietto. Poiché io e Seracchioli e voi e quel mio attendente a cui la granata caduta sulla balma fece l’effetto d’un portentoso purgante, tutti siamo, come voi sapete, degli eroi, i nostri eroi. Quasi come quelli che vincono un campionato di tennis, un circuito motociclistico. Mi meraviglio che non si facciano ancora biglietti da visita, con l’indicazione < Tal dei Tali, nostro eroe >. Eroi siamo ad ogni modo a tenere duro con tanta fede ai nostri ricordi di allora, e più dolorosi e più pidocchiosi e più fangosi quei ricordi sono e più siamo felici, perché siamo davvero delle curiose creature, e gongoliamo tutti di poter raccontare che una volta il maggiore ci diede una pipa, e che quella notte provammo la più matta paura della nostra vita, e che quell’altra volta che andammo in licenza trovammo l’amorosa fra le braccia d’un tenente d’amministrazione della croce azzurra. Sapete bene quella che aveva cura delle bestie.

 

Dicevo dunque che il compito dell’oratore cosiddetto ufficiale, sarebbe il più facile che ci sia, e ognuno di noi, assiso in bigoncia, specie dopo averla vuotata, è in grado di assumerselo. C’è un grave inconveniente: quello del pubblico invitato, che ha pagato, che è profano, che è esigente, che è sazio di discorsi di guerra e di passato perché ne ha sentiti troppi che non ha mai saputo che cosa il passato valga e che cosa, veramente, la guerra sia. Capisco che ci piace un poco farci della réclame, e poi se non venivano gentilmente questi signori a pagarci le bottiglie che andremo a berci stanotte, dove trovavamo i baiocchi? Quindi adesso sarebbe una scortesia dire a questi signori di prendere l’uscio e di andarsene perché le feste alpine non vogliono testimoni profani. Sarebbe una scortesia tanto più che li avete incuriositi e gli avete promesso che io gli parlerò di donne di alpini e di muli con la mia ben nota competenza. O Dio, per quanto riguarda le donne, quel poco d’esperienza che ne ho, preferirei tenermela per me: e del resto dovrei cedere la parola per competenza a qualcuno di noi che è più pratico…..ma non voglio perdere il filo del discorso, sennò mi succede come a quell’alpino che andò a confessarsi da uno dei più noti nostri cappellani. E quindi un poco più tardi, se me lo dimentico, fatemi in mente che vi racconti la storia della Maria d’Auronzo.

 

Di alpini sì, me ne intendo e di muli anche; so le frasi di ceri scarponi pronunciati quando non è il caso di fare della retorica e il rischio di morte era presente e vivo, so le furberie dei muli e conosco la forza che hanno nella coda e nei fianchi: ma ho paura per tutto quanto sia pochino per i nostri cortesi ospiti, perché in fin dei conti questi sono fatti nostri, che non interessano nessun altro, e che il capitano Rossi della 66^ compagnia facesse suonare a stormo su per le crode fulminate dalle mitragliatrici con quella frase: ragazzi, aiutate i vostri compagni a morir bene; e che il Busa giocasse alla mora dietro i muretti sbocconcellati mentre l’artiglieria tirava, ed esclamava: ben, ghe vorrìa una scheggia che me portasse via un dito e così avrei fatto il punto;  questi gesti sublimi o sciocchi che son tutto il nostro passato, abbiate pazienza ragazzi, son cose che non interessano più. Guardate, sono andato l’altro giorno con una leggiadra compagnia di giovinetti del dopoguerra a vedere delle postazioni in Valsugana dove avevo fatto delle azioni con la mia compagnia. Beh vi giuro che un esperimento così non lo tenterò più, e qualche giorno dopo se volli andare a vedere un’altra cima di guerra, andai a godermela da solo.E’ stata proprio una lezione. Quelle trincee di battaglia scavate dai miei soldati in fretta e furia sotto la mitraglia, quella buca dove ruzzolò Bogno da Cesio con tutte le budella fuori,quel macchione dove si era appostato Toliot e ogni cinque minuti veniva a dirmi ch’el aveva copà un tedesco che voleva sorprenderlo, sto fiol d’un can, tutte queste cose che mi stringevano il cuore tutte queste povere cose, tutto questo ciarpame di passato, come poteva interessare quella leggiadra schiera di giovinetti bravini, brevissimi, eroi anche loro, chi della danza, chi dell’automobile, e a cui voglio un bene dell’anima; ma così fuori da quella nostra vita di allora? E quel giorno, su quel cucuzzolo che portò per sei mesi, a parte la modestia, il mio nome,e che ora si chiama oscuramente <el montesel>.

 

Quel giorno feci una specie d’esame di coscienza e dissi: ragazzi miei, guardiamo un poco di non fare i veterani: cerchiamo di non diventare quegli scocciatori che erano gli amici del nonno, ch’erano stati con Garibaldi. Teniamo santamente chiuso in noi nel sacrario della nostra coscienza, questo meraviglioso tesoro di ricordi nostri, tutti nostri, egoisticamente nostri. O tutt’al più tiriamolo fuori di raro nelle occasioni solenni, come si fa col vino vecchio; quando s’incontra un amico di quei tempi; e sbarazziamocene tutto in una volta, in una notte sentimentale, con la nostra donna, perché non si spanni poi di certi abissi improvvisi di silenzio e di tedio che si apriranno in noi.

Quella d’oggi facciamo dunque conto che sia un occasione solenne, perché non si trova tutti i giorni della gente disposta a pagarci un pranzo: e mettiamoci per l’ennesima volta a ricordare.

 

Ora non vorrei che si scandolezzasse di noi questo pubblico fine, o ci giudicasse male, se i nostri ricordi odoran più di vino e di cucina che di polvere: se parliamo sempre dei muli e mai dei generali; se nessuna delle azioni che descriviamo nei nostri racconti è sanzionata dall’elenco ufficiale delle ricompense al valore: se soprattutto parlano con così spregiudicata famigliarità dei nostri morti. Ma credete a me, la guerra va ricordata così. Chi ricorda tragico ha avuto troppo tempo per vedere e troppo poco per soffrire. Chi ricorda patetico non vide, non soffrì come gli altri. Chi declama ha avuto troppo tempo per prepararsi. Credete a me: i ricordi di battaglia di chi c’è stato sono terribilmente incolori e poveri: un certo giallo di roccia, un certo colore di zolle, un certo languore di cielo; qualche parola semplice del vicino; un vuoto enorme nel cuore (e spesso anche nella pancia). Chi vi fa la bella descrizione, con l’odor dei morti e l’aria epica, ha avuto troppo agio per osservare. Le più belle giornate di battaglia restano nei ricordi nostri come enormi lacune bianche o rosse,come eternità che raramente riempiamo di contenuto.

Qualche volta ci sforziamo di penetrare nel vuoto. Che cosa pensavamo all’Ortigara in quelle giornate di rombi e di sole, buttati giù alla rinfusa, morti e vivi, su quelle sassaie maledette,sotto quelle manate di mitraglia che cacciavano per aria brandelli di montagna e di soldati?

 

I diari dicono che furono tre/quattro giornate di passione; noi non sappiamo più di che furono riempite, ne risentiamo solo ancora confusamente,e con un accoramento strano che sembra delle volte nostalgia, ne risentiamo solo ancora impressioni a brandelli, di suono o di luce; e solo qualche stupido dettaglio rimasto inciso con atroce vivezza nella memoria per l’eternità, e ci rammarichiamo perché in quei ricordi non si è mai eroici, mai estetici: è la frase volare d’un collega, è la bestemmia d’un ferito, è il dettaglio buffo dell’animalità che non rinunciava a nessuno dei suoi diritti. E come passammo quella notte di gelo e di tormenta, di cui non ricordiamo altro che un uguale turbinio di neve e un ininterrotto terrore di perdere da un attimo all’altro, il sangue e gli spiriti? Non sappiamo più, non abbiamo mai saputo: i nostri sensi erano troppo presi allora dalla dura necessità di campare la vita per indugiarsi a percepire e a catalogare quelle impressioni.
Quando noi siamo venuti a casa e abbiamo sentito della gente fare delle belle lucide descrizioni di quelle notti, di quelle battaglie abbiam detto: Ma guarda un poco, come è bello e vero! Sembra di vedere la guerra al cinematografo.
Ma noi non eravamo delle comparse cinematografiche: signori miei.

Non avevamo il tempo di pensare alla posa, non era questione di fare una bella pellicola, ma di salvare, se fosse possibile, la pelle.

 

Facevamo con umile orgoglio, con rassegnata pazienza il nostro dovere di soldati, ricognizioni, combattimenti, veglie lavori, lavori veglie, combattimenti, ricognizioni; e qualche volta ci fecero capire che ci avevano giudicato fifoni, senza che noi ne fossimo gran che persuasi, né dell’eroismo né della fifa, sanzionata da altri. In fondo in fondo, quella brava gente che stava laggiù nelle città del piano, sommi comandi o pacifici borghesi, non ci interessavano più. La nostra vita aveva perduto meravigliosamente d’ampiezza, non aveva futuro né passato: i suoi poveri elementi erano la baracca il saccopelo la gavetta il fucile; somma festa il riposo, somma felicità il vino e il sonno. Questo spiega perché i nostri ricordi sono così ingenuamente materialisti;  perché nelle canzoni alpine trovate tanta monotona ripetizione dei motivi tradizionali (le stelle alpine, la neve, le roselline) ma questo spiega anche Morena, la morosa che non s’era ancora avuto il tempo di baciare.

 

Con quell’accorato rammarico, con quanta nostalgia noi guardiamo spesso indietro a quel tempo che i bravi umanitari deprecano, che fu veramente atroce e disumano, ma fu il tempo della nostra giovinezza e della nostra purezza. Sembra ridicolo parlare oggi di quel tempo, fra i facili cinismi ed ironie che servirono allora a tanti per salvare la pelle e la coscienza; e noi passiamo per sanguinari o per nevrastenici, per spostati o per brontoloni quando non siamo in fondo che dei poveri discoli troppo presto messi fuori uso da una terribile e logorante esperienza. Un fuori uso relativo, intendiamoci: figlioli ne abbiamo messi al mondo e ne metteremo al mondo ancora, in montagna ci sappiamo andare ancora, un fiasco non ci spaventa e due ci fanno piacere, ma dicendo fuori uso voglio dire che ci manca qualcosa per adattarci alla vita d’adesso, siamo più restii agli entusiasmi, siam più severi critici, più scontrosi ragionatori; ci siamo inseriti alla meglio nelle nuove formule o nei vecchi schemi, ma qualche volta sentiamo che il motore ansa, che ci vuole un poco di lubrificante. Queste nostre radunate nostalgiche, questi nostri ricordi stereotipati, queste bevute ai vivi e a morti son il nostro periodico lubrificante.

 

Dunque, ospiti cortesi, vi pregherò con le parole del nostro poeta, del tenente del Sesto Sandro Baganzani, di non dire che gli alpini sono gente villana, perché porta i chiodi sotto le scarpe e il cappello così unto da farci un rancio speciale. Hanno canzoni romantiche e soavi; sasso offrire alla morosa quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna, con garbo tutto speciale; menam strage, se occorre, fra le forosette di montagna; e se preferiscono la sincerità d’un abbraccio alle ipocrisie d’un ballo ciò corrisponde alla loro natura franca e ingenua. Ci son delle canzoni alpine che narrano alla brava, con tocchi rapidi, dell’alpino che fa la conquista d’una bella morosa o d’una bella bionda ma attenti! C’è l’avvertimento che quella conquista rapida è seria, che la morosa una volta presa non si molla più, come si faceva delle crode dolomitiche. Doveva pensarci prima la sventanella. Ecco la bella mora ha avuto un momento di debolezza per l’alpino, è andata una volta con lui nell’osteria che sta al di qua del ponte: poi lo prega di lasciarla andare, perché è figlia da maritar. Ma da questo orecchio l’alpino non ci sente

Se sei da maritare / dovevi dirlo prima / or che sei stata /coi vecchi alpini /

non sei più figlia / da maritar

Ciò conclude la canzone: farai un figlio al vecchio alpino, che manco a dirlo si chiamerà Tonino e diventerà alpino anche lui e perpetuerà su per le crode cadorine o i ghiacciai valdostani le canzoni e le imprese paterne. E’ proverbiale questo senso rigido del dovere, nel soldato alpino; l’amorosa diventa femmina, madre dei figli; mi ricordo alla compagnia di un certo Smaniotto che venne a pregarmi di fargli le carte per il matrimonio per procura perché doveva sposare una ragazza del suo paese: e el me dispiace tanto salo, mi diceva, perché la sé bruta, vecia e guercia e proprio un rampo da galera. E perché la sposi allora – gli chiesi. Bisogna che la sposi perché una sera in licenza, ch’ero bevuto me son compromesso con ela, e adesso non posso piantarla. E tanto proverbiale; che conosco una certa Maria d’Auronzo, bavosa e sdentata, che aspetta ancora oggi d’essere impalmata da un vecchio alpino….qui presente.

 

Sto vecchio alpino scendeva dalle Tofane dopo mesi di passione su quelle crode vertiginose. Chi è stato a Cortina d’Ampezzo ricorderà quelle magnifiche torri, lisce ed erte, che furono prese d’assalto e tenute in condizioni catastrofiche. Ben, sto vecchio scendeva un giorno a riposo, arriva ad Auronzo, e l’attendente Tonon gli dà la lieta novella di avergli trovato una camera e un letto presso una donna del luogo, di nome Maria. Il nostro eroe dorme come un papa e alla mattina svegliato dalla signora Maria, che gli porta il caffelatte con gesti premurosi e parole di compassione, poareto, poareto, ch’el se serva, ch’el se serva. Bè, qui bisogna scivolare sui dettagli.
Vi prego solo di ricordare che vi ho detto che Maria era bavosa e sdentata. Bè, dopo un’ora l’ufficiale tutto confuso e smarrito si confessava dal Cappellano del Cadore, il bravo don Piero Zangrando. Ho baciato una ragazza, cappellano, merito una penitenza: ho baciato la Maria.

La Maria urlò don Zangrando trinciando un gran procione per aria: non occorre penitenza: ego te absolvo!

 

Ma la Maria s’illude ancora, lo so di sicuro; e chissà che non vediamo anche questo matrimonio fra breve, anzi questo alpinificio, come si chiama da noi il matrimonio dell’alpino. I neonati si chiamano scarponcino e scarponcina, secondo i casi; a tirarli su per la montagna e per le fiamme verdi ci pensa il padre con diversi metodi, fra cui quello brevettato del capitano Montagna che è, come sapete, quello di mettere vino nel poppatoio.

 

Si, vi hanno messo le donne nel programma di questa chiacchierata, ma bisogna confessare che nei nostri ricordi di guerra esse tengono la parte minore. Già nei ricordi di questo genere non ci facciamo mai una gran bella figura e si preferisce evocare aneddoti in cui la nostra persona sia in bella mostra. Quando poi al fronte si narrano storie di donne, c’era il pericolo che succedesse quello che è accaduto al mio battaglione a Cima Setole. Torna dalla licenza il tenente Contadini e racconta una magnifica avventura che gli è successa in treno con una dama così e così, ma coi fiocchi, e fermata intermedia e automobile e grand hotel, e profumi, e mille incidenti uno più complicato dell’altro. Noi ascoltiamo, invidiosi, beviamo grappa e raccontiamo aneddoti. Quattro giorni dopo torna il tenente P. dalla licenza etc. Ci guardiamo un po’ scettici; poi troviamo che il caso si permette degli scherzi molto interessanti e beviamo ancora una volta grappa e storiella. Dopo tre giorni arriva un terzo ufficiale dalla licenza, e porta con sé la <Domenica del Corriere> dov’era pubblicata una novella, che raccontava un’avventura galante di un ufficiale in licenza, precisa e identica a quella narrata dal Contadini e dal P. Credete a me: di tutti i commenti erotici riportati dalla licenza il più sincero mi parve sempre quello del capitano Busa, quando si presentò al maggiore. Come è andata? Benissimo, signor maggiore. Son stà quindese jorni con un brasso al collo! Un braccio al collo? Poveretto, è caduto? He no, l’era el brasso de la morosa.

 

Dalla donna ai muli il passo è breve: se non altro perché gli alpini veneti chiamano mule le loro innamorate. Ma fare l’elogio del mulo è ormai una delle cose più superflue che possa fare un chiaccheratore fra alpini: basterà la vecchia definizione, che il mulo è l’alpino fra i quadrupedi. Perché insomma, bisogna che i profani non credano che per esempio fra il cavallo e il mulo sia di coda o di sagoma o di voce; che il mulo per l’alpino sia quello che è il cavallo per il cavalleggero; e come il cavalleggero è bellino, snello e pulito, rasato e pettinatuzzo e riassettato, così va bene per lui la bestia più nobile e più elegante, e per quei villani d’alpini si conviene proprio il dozzinale figlio d’un cavallo che ha avuto un < contatto > con un’asina. Ma il paragone non torna. Il cavallo per il cavalleggero è un’arma, un pezzo spesso delicato di tradizione e di spostamento: che va bene finché va benissimo, ma fa presto a diventare un ingombro, che è un elegantissimo mezzo di distinguersi dalla plebe dei soldati che pestan la mota, ma diventa un elegantissimo impiccio dove il terreno è rotto e accidentato. Ed è anche, un costoso oggetto sportivo; ma questo è un altro discorso. Guardate invece che cos’era il mulo per noi. Era veicolo, era portabagagli, era cucina, era magazzino, era elemento indispensabile di riposo e di combattimento: il solo legame col mondo, il solo consolatore nella solitudine, il solo che ci consolasse che c’era un destino di guerra più faticoso del nostro. Il suo arrivo voleva dire tutti i conforti dell’anima e del corpo, il pane e il vino, l’altare del cappellano e cassetta del medico, la cassa delle scartoffie e quella di cottura. Era inoltre il sostegno su per le mulattiere erte, con quella coda benefica, quando il maggiore non vedeva; era la guida fra la nebbia e la tormenta, era il superatore di abissi. Era sobrio e resistente, tenace e devoto; sapeva anche portare in groppa, fosse il prete o il capitano, il ferito o l’ammalato, il pelandrone o il grassone, si lasciava persino attaccare ai carrozzini quando s’era a riposo e si faceva i mafiosi su per le strade lisce delle retrovie. Vi giuro io se debbo proprio tornare a nascere e non mi sia dato ritornare uomo, voglio proprio nascere mulo: mulo in una bella compagnia alpina, con un bel nome di cima, con un conducente come m’intendo io, con la barbaccia d’anticristo e la cicca in bocca e il cappello sulle 23; perché sarei sicuro di due cose. Di fare un lavoro utile e onesto per tutta la mia vita e di averne in cambio riconoscenza e gratitudine, condizioni piuttosto rare nella vita d’un uomo.

 

Ragazzi, mi pare che sia l’ora di rimandare a casa questi bravi signori che m’hanno ascoltato pazientemente fin qui e di andarci a bere le bottiglie che ci hanno pagato. Ma vorrei finire in una maniera un po’ meno scarpona, per non lasciare di noi una troppo brutta impressione; vorrei pregare questi signori di perdonarci le nostre intemperanze e le nostre scarpinate; di perdonare ai vivi per amore dei morti, dei nostri morti, dei nostri mutilati, dei nostri compagni che la guerra ha guastato per sempre. Ieri ancora dovevo aggiungere un altro nome alla lista dolorosa della mia memoria: quello d’un tenente della mia compagnia che, fatto prigioniero, scappò d’inverno per le montagne dei Tauri, e quattro volte fu acchiappato dai gendarmi e per quattro volte riuscì a sfuggire loro; e vagò per un mese e mezzo per nevi, boschi e ghiacciai, senz’altro miraggio che arrivare a casa sua, in Cadore, allora occupato dai tedeschi, e unirsi a quei ribelli alpini che erano rimasti liberi a fare i briganti alle spalle dell’esercito invasore; e giunto a dieci chilometri da casa per un valico alpino battuto dal vento, con la neve fino al collo, esausto, affamato, ferito, fu acchiappato per la quinta volta dai gendarmi e riportato fra sbarre e sentinelle, a finire il tristo tempo della sua prigionia. E in una tragica impresa ci ha rimesso i polmoni, e sta morendo ora di tubercolosi; ma ancora un mese fa, mi mandava una cartolina di saluto con le parole d’una gaia villotta friulana, parole piene d’una grazia birichina e sbarazzina.
Il tenente Romanin da Forni Avoltri. Per questi martiri nostri, per i nostri morti oggi, come l’anno scorso, come due anni fa, che l’omaggio migliore siano le nostre canzoni, i nostri ricordi più pazzi, le nostre bevute rumorose, queste nostre adunate in cui rimescoliamo il rimpianto e l’augurio, il ricordo e la speranza. Poiché cantarono anch’essi le stesse strofe, quando i polmoni gli servivano, quando la pelle gli teneva alle ossa; e furono anch’essi confortati dal sole rosso del vino, le sere che rientravamo fradici dalla pattuglia. Onoriamo e ricordiamo i nostri con gesti e le parole che consolarono la loro breve vita. Sarebbe presunzione enorme la nostra, e non possiamo pretendere che il loro destino serva a riverbare luce eroica sopra di noi. Noi non dobbiamo fare come quelli che ammucchiano i morti gli uni sugli altri per farsene piedistallo e trampolino alle loro ambizioni.

Questa Conferenza <scarpona> si trova anche sul libro - Paolo Monelli - Ricordi di NAJA ALPINA, a cura di Luciano Viazzi, Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A., 2001.

Note: Nel libro non vi è rferimento specifico.
Il nome di Seracchioli (Luigi) citato agli inizi della conferenza era il Presidente della Sezione bolognese romagnola, vicino a Monelli al tavolo delle “autorità” nel corso della cerimonia.
(1) Paolo Monelli, noto scrittore e giornalista, è stato per molti anni socio della sezione bolognese romagnola, (vedi la sua biografia)