archivio Giuseppe Martelli
dedicato agli alpini in armi e in congedo

I NOSTRI SOLDATI ALPINI
di Giuseppe Domenico Perrucchetti*

trasritto dall'articolo originale da Giuseppe Martelli

pubblicato il 1° dicembre 2010

 

Pubblicato su una rivista nel luglio del 1915, è stato rintracciato questo articolo dedicato a: i nostri soldati alpini.
L'Italia, da circa due mesi, esattamente dal 24 maggio 1915, è entrata in guerra contro l'Austria. E' quindi un periodo di grande fervore patriottico e molte riviste pubblicano articoli dedicati ai nostri soldati, ai vari Corpi del nostro Esercito e alla loro storia. Fra i vari articoli pubblicati appare questo, certamente molto interessante, perchè redatto in persona dal Generale Giuseppe Domenico Perrucchetti che è stato l'ideatore del Corpo degli Alpini e per questo chiamato famigliarmente il Papà degli Alpini.
Un documento che sicuramente aggiunge qualcosa di nuovo alla nostra storia, non tanto dal punto di vista storico, ma rileggendo gli esempi, i ragionamenti e le considerazioni che lo hanno portato a formulare nel 1872 la proposta di istituire un nuovo Corpo Militare, o meglio di istituire nuovamente un Corpo Militare già presente sul territorio fin dai tempi dell'impero romano, abbiamo certamente una visione più "diretta" attraverso il pensiero del nostro "ideatore" sui "perchè". Se pensiamo poi che l'anno successivo (5 ottobre 1916) è deceduto, questa sua ultima diretta testimonianza diventa certamente ancora più interessante proprio perchè nessun altro meglio del nostro Papà conosceva le nostre origini ed il perchè.

 



Così inizia l'articolo di Perrucchetti. Nel testo riprodotto qui sotto, sono inserite
anche le immagini che corredano l'articolo in originale pubblicato nel luglio 1915.

Or fanno quarantre anni, quando Re Vittorio Emanuele II decretò che i difensori nati nelle Alpi fossero ordinati a difesa delle porte d'Italia, un nuovo e vivissimo senso di sicura fiducia e di legittimo orgoglio elevò la coscienza della Nazione.
Lo ispiravano gli eroici ricordi delle prove di ardimento, di abnegazione, di resistenza ad ogni costo, che, nelle lotte per l'indipendenza e per la libertà, avevano resi gloriosi gli antenati dei nuovi Soldati Alpini.
Dalle
Alpi marittime, alle Valli Valdesi, alla Valle d'Aosta, alla Valtellina, alla Valle Camonica, all'Altopiano dei Sette Comuni, alle Gole del Cadore e della Carnia, alla rupe di Osoppo, stanno, impressi a caratteri di sangue, i ricordi di gesta leggendarie, specchio parlante ai novelli difensori delle Alpi. Il nostro soldato alpino, erede di quelle glorie, sente la discendenza da una gente forte, sobria, tenace, la quale, da remotissimi tempi, ha sempre lottato, con saldezza granitica, contro infinite fiumane di Barbari, e contro non pochi eserciti regolari, forti per numero, per ordinamenti e per tradizioni.
Il fascino di questi ricordi eleva i cuori, stabilisce un impegno d'onore, ripete al montanaro, allenato ai maggiori cimenti nella giornaliera lotta per l'esistenza, innamorato del luogo natio, che: noblesse oblige. (1)
A tanto obbligo, risposero e rispondono, in modo degno degli avi, in ogni scontro, i nostri soldati alpini nell'Eritrea, nella Tripolitiania, nella Cirenaica, a Rodi ed oggi, dallo Stelvio all'Isonzo, nella rivendicazione delle nostre terre irredente.
Va qui ricordato che i fieri abitatori delle nostre montagne non piegarono, per secoli, neppure alla disciplinata onnipotenza di Roma. Questa, vittoriosa già nelle Gallie, nella Germania e nel Norico (2), dovette per molti anni preferire di amicarseli piuttosto che soggiogarli; e, solo dopo avere raggiunta una straordinaria altezza, pervenne a domarli con terribile strage, ai tempi di Druso.
A tanta tenacia, diventata natura, dobbiamo se tutta la nostra popolazione alpina, temprata, anche in pace, ai più ardui cimenti, ha conservato intatta, così nel morale come nel fisico, l'antica fisionomia e la comunanza di sentimenti e di linguaggio. Con tali precedenti di origine i nuovi soldati alpini non potevano che confermare le previsioni dei primi giorni. Con inflessibilità e con eroismo degni degli avi, da quarantadue anni essi danno in pace ed in guerra prove che destano l'ammirazione del mondo.

Aosta - Il monumento a Vittorio
Emanuele II
Se in altri luoghi ed in tutti i tempi, il comun fato svelse le iscrizioni e gli obelischi e gli archi, nella bella cerchia, che provvida natura "pose fra noi e la tedesca rabbia", rimasero "monumenti d'eroi pur sempre vivi, le montagne della terra nata!".
Però se, in ogni valle, gli alpigiani del luogo ricordano e tramandano religiosamente le gesta locali, non molti fra essi conoscono quelli della valle vicina, e, fuori dalle Alpi poi, ben pochi italiani hanno conoscenza e coscienza di quelle glorie e delle nostrane attitudini e precludere il passo ad ogni prepotenza straniera.
Questa conoscenza è indispensabile, per giustamente apprezzare la missione delle truppe alpine, per indovinarne il valore, garantito dai gloriosi ricordi scritti dai nostri padri, col sangue, su le balzi delle Alpi, e per avere coscienza della nostra forza. Lassù vorrei poter condurre i giovani a leggerle; poichè, solo colla vista dei luoghi, eloquenti testimoni delle gesta, è possibile apprezzare degnamente l'immenso patrimonio di tradizioni gloriose che, a buon diritto, rendono il nostro montanaro fiero del suo passato, fidente nell'avvenire, sicuro nel geloso compito di guardiano delle porte d'Italia.
Dalla Liguria all'estremo Friuli le tradizioni locali additano all'alpigiano in ogni forra (3), in ogni valico, un ricordo di epiche lotte, nelle quali gli avi, senza altri armi talora che il personale valore e le petre dei natii dirupi, pugnarono in massa, uomini e donne, vecchi e fanciulli; tetragoni agli orrori della guerra, spesso condotte dallo straniero con ferocia spietata, nel vano e selvaggio proposito di fiaccare coi saccheggi, cogli incendi, colle esecuzioni in massa, insomma, con ogni più inumano accesso, la coscienza di un popolo incrollabile nel sentimento della indipendenza.
Questa storia, caratteresticamente e terribilmente alpina, purtroppo ignorata anche da moltissimi fra gli italiani di una certa cultura, meriterebbe di essere profondamente studiata; epperò non credo superfluo, per interessarvi tutti i futuri liberatori delle Alpi e gli Italiani in genere, ricordare qui almeno per sommi capi due esempi di quanto, in tempi diversi, in diverse regioni, hanno operato due delle nostre valorose popolazioni alpine, Valdesi e Cadorini.
Nelle vallate, fra il Monviso ed il Tabor, brilla da secoli glorioso il nome dei Valdesi, discesi da antichissime genti, affermatesi fieramente fra le Alpi da epoche immemorabili, fino ai tempi di Augusto. I nomi di quelle genti, ricordati, con quello del Re Cozio, nell'arco trionfale di Susa, furono con presaga sapienza inscritti dai Romani anche sul Termine monumentale che, alla Turbia, segnava il finis Italie. (4)
I nostri Valdesi ne raccolsero e serbarono il retaggio, colla loro fierezza tradizionale. Costanti nella religione, serbata colla evangelica semplicità dei primi tempi cristiani, fedeli, nelle maggiori sventure, ai loro legittimi Princìpi, essi furono irremovibili ogni volta che la Chiesa di Roma o gli stessi Princìpi, da quella incitati, minacciarono la libertà della loro coscienza. Trassero le ispirazioni della concordia dalla loro unione patriarcale in una Chiesa, la quale precorse di secoli la riforma germanica, e destò, persino nei tempi di minor tolleranza, l'ammirazione degli stessi avversari. Il cattolico Claudio di Seyssel, arcivescovo di Torino, infatti ebbe a scrivere di essi: "mettono da parte le loro oppinioni, che sono contrarie alla fede, i Valdesi menano, quanto al resto, per la maggior parte una vita più pura di quella degli altri Cristiani".
Fino dal XII secolo i Valdesi resistettero con eroica costanza alla Chiesa di Roma ed al Tribunale della Santa Inquisizione, furente contro questi eretici delle Alpi. Circondati improvvisamente da numerose truppe a Pregelato, mentre erano congregati a festeggiare il Natale, anzichè sottomettersi si rifugiarono in massa, perdendo fra i rigori dell'inverno gran parte dei loro bambini, sulla più aspra e nevosa fra le vicine montagne, che da quel giorno, diventata loro albergo, prese il nome di Abergian.
Nel XV secolo, sospinti d'ogni parte da una vera crociata, promossa dal Papa (il quale, nel 1477, proclamava l'esterminio dei Valdesi come santo è necessario, ed invitava vescovi, arcivescovi e vicari ad obbedire all'inquisitore, ed i popoli a prendere le armi) resistettero a ripetuti attacchi per parecchi anni. Nel 1487, soverchiati nella pianura dalle bande di un Legato Pontificio, attirarono queste fra le loro termopili della Valle di Angrogna, e le sterminarono. Quasi senza armi lottarono, nell'inverno dal 2 novembre 1560 al 18 aprile 1561, contro le truppe di Emanuele Filiberto, comandate di uno dei più energici uomini di guerra, il Conte della Trinità; il quale aveva sfidato le maggiori difficoltà, portando in linea, fra alte montagne, fino a dieci mila uomini. Non domi dalle stragi e dagli incendi, (con i quali l'avversario traeva vendetta sulle indifese borgate) sdegnosi di ogni transazione anche nei momenti più duri, indussero colla loro fermezza il Duca di Savoia a riconoscere, dopo sei mesi di lotta, l'equità delle loro aspirazioni.

Aosta - Arco di Cesare Augusto
Riconcigliati col Duca di Savoia, rinnovarono con fedeltà, in sua difesa, gli antichi prodigi di valore. Quando nel 1627 egli si preparava ad opporsi a Luigi XIII, i Valdesi accorsero in massa a guardia della frontiera, attaccando furiosamente e ricacciando oltre i monti la colonna francese, scesa per l'Agnello in Val Varaita, agli ordini del Marchese di Uxelles. Quando poi nel 1630, invaso dai Francesi il Piemonte, ogni ulteriore resistenza diventò impossibile, i Valdesi non vollero arrendersi al Maresciallo francese De la Force, se non alla condizione di conservare i loro previlegi e di non prendere le armi contro il loro antico Sovrano.
Ma, dopo un quarto appena di secolo, una generale reazione riaccendeva il dissidio fra i religionari Valdesi ed il loro Principe, e nell'inverno del 1635 le loro valli furono funestate da nuove persecuzioni. Il Marchese di Pianezza, occupate, sotto pretesto di pacifico accantonamento, le valli valdesi colle truppe ducali, tentò la sottomissione terrorizzando l'inerme popolazione con feroce eccidio, alla vigilia di Pasqua. Incendiati i villaggi, massacrati i religionari di ogni sesso ed età, in tutte le valli, sola era sfuggita al massacro la vallata di Rorà, abitata da 25 famiglie.
Il leggendario capo Lanavel, con soli sei uomini, arrestò in una stretta una colonna di 400 nemici, e ne fece strage; all'idomani, con 16 uomini, dei quali 6 soli armati di fucile, arrestò, in altra stretta, una seconda colonna di 600 uomini. Passando i fucili carichi ai migliori tiratori, postati in testa, allo svolto di un angusto sentiero, e rotolando macigni dall'alto, quei pochi obbligarono il nemico a ritirarsi con perdite gravissime. Circondato, il 27 aprile, da numerose colonne giunte da tre lati per saccheggiare ed incendiare Rorà, Lanavel, nella impossibilità di tenere testa, ripiegò coi suoi a Pian Pra per piombare sul nemico stanco dalla strage e carico di bottino, lo sbaragliò e gli ripigliò la preda.
Nel mese seguente, e pare assai più leggenda che storia, per snidare quella piccola banda, il Marchese di Pianezza dovette mettere in movimento 8.000 soldati e 2.000 paesani. Menò stragi a terrorizzare il paese, ma invano tentò di porre fine alla lotta. Ianavel, dapprima sfuggito fra le nevi, per il Colle della Croce, nel Delfinato, raccolse 1.500 profughi Valdesi e, sul finire di maggio, piombato sui distaccamenti delle truppe ducali, ne fece scempio, arrivando fino a San Secondo dove massacrò tutto un presidio di 1.400 uomini.
La lotta continuò ficchè il Duca di Savoia, cedendo, sulle istanze di Cromwell e di Luigi XIV, stipulò nuovi patti di tolleranza. Otto anni dopo (1663), nuova levata di armi contro i Valdesi, nuove condanne, nuovi massacri, nuovi miracoli di resistenza. Ianavel, raccolti nelle altre valli poco più di un migliaio di armati, si avanzò sul contrafforte fra San Secondo e La Tour, facendo guardare le strette di valle d'Angrogna. Inframettendosi fra quattro colonne (forti complessivamente di circa 8.000 uomini) le battè separatamente, infliggendo loro perdite enormi: 600 morti e 400 feriti. Per nuovo accordo fu concesso un indulto. Ventidue anni dopo, revocato in Francia l'editto di Nantes, perduta dai religionari ogni speranza di rifugio da quelle parti, si addensò sui Valdesi nuova e più furiosa procella, essendosi collegate, a loro sterminio, le armi del Duca e quelle di Luigi XIV.
In quella generale reazione, il re di Francia aveva spinto Vittorio Amedeo II (allora diciannovenne) ad ordinare il 31 gennaio 1686 la demolizione dei templi valdesi ed il bando dei loro ministri. Le truppe francesi mossero insieme a quelle di Vittorio Amedeo ad investire da ogni parte le vallate valdesi. Attaccarono: valicando i monti fra l'alto Pragelato e la valle di Massello; rimontando da Perosa la valle della Germagnasca (sbarrata dai Francesi col forte Luis); investendo da ogni parte, anche per l'alto dei monti, le valli di Angrogna e di Luserna. Ne seguì una lotta feroce, orribilmente rischiarata ogni notte dagli incendi dei villaggi, sino agli ultimi abituri. Finita la strage le ridenti valate ebbero la pace del cimitero. Di tutta la popolazione valdese tremila soli riuscirono a porsi in salvo, con mirabile esodo, rifugiandosi nei Cantoni di Ginevra, di Berna e di Vaud; diecimila vennero internati nelle città del Piemonte; il rimanente ucciso nella lotta od impiccato, poichè a nessun combattente si dava quartiere.

Ianavel

Arnaud
In tanta calamità, superiori alla sventura, insofferenti della lontananza dei monti natii, i pochi Valdesi rifugiati nella Svizzera congiurarono, fin dai primi giorni dell'esilio, di rimpatriare colle armi in mano. Impediti due volte dal governo svizzero nei primi tentativi, ritentarono e riuscirono prodigiosamente al terzo anno, nel 1689. A 600 combattenti Valdesi si erano collegati, facendo causa comune, 400 fuoriusciti francesi. Si riunirono segretamente nei boschi di Prangins, ed, attraversato su barche il lago di Ginevra, nella notte del 15 aprile, intrapresero una meravigliosa odissea, per aspri sentieri di alta montagna. Evitando i centri popolosi, (presidiati dalle truppe del Re di Francia e del Duca di Savoia) marciando e combattendo senza tregua per undici giorni, arrivarono nell'alta valle del Pellice.
In quella marcia i Valdesi superarono i monti fra il lago di Ginevra e l'alto Isère per i valichi di Mègive, di Haute Luce e di Bonhomme, respingendo gli ostili montanari cattolici del sito; risalirono la valle di Tignes, fra le nevi dell'Iseran passando nell'alta valle dell'Arca; si affacciarono al Moncenisio, di la, evitando la piazza forte di Susa, girarono, per l'alto, al Piccolo Cenisio, indi al colle del Clapier e scesero in val di Dora al Giaglione. Trovata quivi resistenza insuperabile, risalirono per sentieri il versante sinistro fino a Salbertrand, dove, di fronte all'unico ponte della Dora, che era giocoforza passare, stava pronto in posizione un grosso presidio francese. Lanciatisi all'attacco, e respinti due volte, alla terza quei novecento fulmini di guerra passarono sul corpo di 2.500 Francesi. Saliti al colle di Coteplane, sulla dorsale dell'Assietta, scesero nell'alto Pragelato, ne cacciarono i presìdi nemici e, dopo brevissima sosta, risalirono l'opposto versante lanciandosi all'attacco del colle del Piz, guardato da 800 uomini agli ordini di uno fra i più valenti guerriglieri del tempo, il Marchese San Martino di Parella.

La Balziglia

Una nebbia fittissima favorì l'impeto dei Valdesi, i quali passarono, cacciando il nemico dal Piz, e, scesi nella valle di Massello, sorpresa e massacrata presso la Balziglia una compagnia nemica, avanzarono nella valle di Praly, e dopo brevissima sosta (durante la quale trassero tremenda vendetta delle famiglie savoiarde venute ad occupare le loro terre) cacciarono dal Col Giulian due battaglioni di truppe ducali, e scesero nell'alta valle di Luserna, loro ultima meta. Ne seguì una lunga guerriglia, nella quale poche centinaia di Valdesi, comandanti da Arnaud, lottarono contro le truppe del Duca e quelle del Re di Francia per tutto l'autunno e l'inverno, dopo avere improvvisata una vera fortezza sul roccioso e ripido contrafforte che da Monte Pelvo scende alla Balziglia. Fra quei trinceramenti 370 Valdesi resistettero per tutto l'inverno fino al 24 maggio 1690 ai procedimenti di un assedio regolare, ed ai ripetuti attacchi di 4.000 Francesi, con 5 pezzi di artiglieria, condotti personalmente dai generali Catinat e Feuquières.
Giunto all'estemo esaurimento di mezzi, mentre il generale Feuquières nel preannunciare per l'indomani al Re di Francia l'ultimo decisivo attacco di quel covo di Barbetti soggiungeva colla più grande fiducia: se il diavolo non mette loro le ali domani saranno tutti nelle nostre mani, i difensori della Balziglia sfuggivano di notte pei dirupi del Pain de Sucre, da tutti creduti inacessibili, non lasciando altro al nemico che i prigionieri scannati. Preso il largo, i superstiti della Balziglia, rinforzati da altre bande, continuarono a tener la montagna con una lunga serie di brillantissime imprese. Pochi mesi dopo, non appena Vittorio Amedeo II si rivoltò alla pesante tutela di Luigi XIV, i Valdesi fecero causa comune colle truppe del Duca, continuando le loro mirabili gesta ed infliggendo le più gravi perdite all'esercito di Catinat; allorchè sul principio di novembre, lasciate le nostre pianure, rimontò la valle del Ghisone, per muovere alla sorpresa di Susa. Seguirono con mirabile slancio quello stesso Marchese di Parella che li aveva combattuti a primavera e lo aiutarono a prendere ai Francesi Castel Delfino, il 12 novembre.

Carlo Emilio San Martino
Marchese di Parella
Malgrado la molta neve, essi passarono le Alpi menando fiere puntate nel Delfinato, e, svoltando a dicembre nella valle di Barcellonetta, compirono rappresaglie sul paese nemico fino alla metà di gennaio. Troppo lungo sarebbe riassumere le gesta dei Valdesi in tutte le campagne, che negli anni successivi si rinnovarono sulle Alpi fino alla pace di Utrecht (1713) e nelle quali fieri alpigiani lottarono contro le più agguerrite truppe di Francia, condotte da capi quali Catinat e Villars. Fedeli quanto valorosi, essi respinsero, quasi appena iniziato, il tentativo (1704-1708) di una repubblichetta nella vallata di San Martino. Il tentativo francese di trar profitto dal loro sentimento di indipendenza, con ogni mezzo, per staccarli dalla patria comune non riuscì. Era ancora troppo viva l'eco dell'ordine di di Louvois: Bruciate, bruciate tutto, mandato da Parigi a Catinat, troppo efficace l'esempio di Casa Savoia, la quale in ogni guerra divideva personalmente tutti i cimenti del suo popolo e troppo caro il ricordo di Vittorio Amedeo II, che, fra le borgate ancora fumanti per gli incendi, spezzava il suo collare dell'Annunziata per distribuirne i frammenti alle genti immiserite.
Non invano quel principe, assediato da La Feuillade nel 1706 a Torino, si era affidato al valore ed alla lealtà dei Valdesi rifugiandosi in uno dei momenti più critici, nella valle di Rorà. Quando, dopo trent'anni di pace, una nuova bufera si addensò sulle Alpi occidentali, (invase dai Gallo-Ispani nella guerra di successione di Austria) i Valdesi furono non solo i vigili custodi dei valichi affidati al loro valore e gli scorridori fortunati sul paese nemico, ma i brillanti cooperatori di due fra le maggiori vittorie che obbligarono l'invasore degli Stati del Re di Sardegna a ripassare le Alpi.

Monumento all'Assietta
Nel 1744, infatti, 5.000 Valdesi piombarono inaspettati sulle retrovie dei Gallo-Ispani, che, scesi per valle di Stura, assediavano Cuneo; distrutti i depositi di munizioni del nemico, attaccarono il corpo d'assedio e largamente contribuirono al successo della campagna, molestando poi l'invasore, anche nella sua ritirata.
Coll'antico valore concorsero, tre anni dopo (combattendo sui trinceramenti dell'alpe d'Arguel) alla vittoria dell'Assietta, che troncò una invasione e dimostrò al mondo come, anche nelle Alpi, si possono trovare le grandi soluzioni della nostra difesa, senza aspettare il nemico sul Po. Durante la guerra della Rivoluzione Francese, (dal 1792 al 1796) portarono largo contributo di aiuti nelle operazioni difensive che si svolsero lungo le loro valli. Se a qualcuno questi ricordi paiono soverchi, rifletta che "la storia del valore non è mai lunga", che a questi esempi si temperano i caratteri e si eleva la coscienza, della forza nostra.

 

 

Nel Cadore come nelle valli Valdesi tutto un popolo ha dato, da tempi immemorabili, tali prove di costante valore, contro ogni prepotenza straniera, da far parere risorta quella virtù che nei più eroici tempi di Roma frustrò le vittorie di Pirro e di Annibale. Nell'anno 1848 i Cadorini (come fu ricordato recentemente nel conferimento della medaglia d'oro al valor militare alla bandiera del Cadore) abbandonati da tutti, senza che alcuno di fuori li sostenesse, li sussidiasse (non pur di soldati, ma di strumenti di guerra, di danaro, di viveri) compirono una difesa veramente degna di poema e di storia.
Questa lotta non ha forse l'eguale in alcuna delle più celebri guerre popolari dell'Italia, della Spagna, della Grecia, della Polonia, dell'Ungheria, delle Fiandre.
Attaccati da truppe regolari, dieci, venti, cento volte superiori per numero, da settentrione, da mezzodì, da levante, i Cadorini non contarono mai i loro nemici. Dove mancavano cannoni e fucili, supplivano batterie di sassi e tridenti. Alle intimazioni dello straniero, la sola risposta era sempre quella del fiero fiorentino a Carlo VIII: "Suonate le vostre trombe, e noi suoneremo le nostre campane". In Calalzo, rimaste sole le donne in paese, mentre gli uomini combattevano altrove, esse, dato di piglio alle campane, sbigottironi il nemico, colto come in imboscata dai rintocchi di tutti i campanili, che, con lugubre accordo, da ogni parte rispondevano a stormo. Ad Oltrechiusa, uomini e donne, con picche e tridenti, arrestarono una grossa colonna austriaca, mentre in tutto il paese all'intorno le campane a stormo echeggiavano, formidabili voci di un popolo deciso ad ogni estremo per la difesa dei lari. (5)

Pietro Fortunato Calvi
Al comandante nemico, venuto a parlamento e chiedente che cosa significasse quello scampanio, risposero: " Le campane suonano la nostra o la vostra agonia". Degni dei loro avi, vittoriosi nel 1508-1511 a Rusecco, a Cibiana, a Belluno, a Vallesella, contro tutti gli attacchi delle aguerrite truppe di Massimiliano d'Austria, i Cadorini del 1848 ripeterono quei prodigi: moltiplicandosi con la fulminea rapidità delle mosse, sotto il magistrale comando del Calvi, pugnando da leoni e rintuzzando le forze nemiche, da ogni parte minaccianti, a Chiapuzza, a Rivalgo, a Rucorvo, alla Chiusa di Venas, al Passo della Morte.
Le strette del Tagliamento, del Piave, del Boite, la valletta di Rindomera, novelle Termopili, videro i nostri montanari pari di valore, superiori in fortuna ai leggendari compagni di Leonida. Anche nel 1866 la brillante tradizione, sempre viva nei cuori cadorini, ebbe una gloriosa conferma su l'alta Piave, ai Tre Ponti, dove un pugno di prodi ricacciava, con scorno, una colonna austriaca forte di 1.300 uomini scesa per il Comelico a molestrare il paese, all'indomani dell'armistizio già firmato a Cormons. Quest'ultima prova, assieme a quelle date nello stesso anno dalle milizie improvvisate in Valtellina e brillantemente condotte da Enrico Guicciardi, valse meglio di ogni altro argomento a dimostrare tutta la convenienza di un assetto permanente di truppe alpine; ed è prezzo dell'opera qui rammentarlo, dovendosi, a quegli esempi, l'ispirazione del novello ordinamento.

Tre Ponti

Dai ruderi della Cosseria alle balze della Marta, alle vette dell'Aution, alle barricate di Stura, ai ruderi di Demonte, di Casteldelfino, di Mirabocco, ai dirupi della Balziglia, all'Assietta, alle barricate di Susa, alle strette della Pierre Taillèe, e dell'Alto Ticino, ai gioghi dello Stelvio e del Mortirolo, al Caffaro, alla Corona, a Monte Suello, alle gole di Condino, di Ampola, di Bezzecca, di Valle Lagarina, di Primolano, alle Termopili del Cadore, ai trinceramenti di Osoppo, ogni pietra parla un linguaggio che nessuna penna vale a riprodurre. La storia di quelle imprese è in gran parte da scrivere o da rifare, ma sta scolpita nel cuore delle nostre popolazioni alpine, evocata perennemente con prodigioso effetto dalla vista dei siti memorandi. Passeranno i secoli, ma monumento di gloria rimarranno le nostre montagne e ricordare le imprese dei difensori delle Alpi finchè sia caro ed onorato il sangue per la patria versato.

Tanto patrimonio di ricordi nazionali non ebbe nel nostro paese il culto che meritava, quando la maggior parte degli italiani era quasi straniera in patria, ed il torpore di lunga pace e l'opera nefasta della dominazione straniera assopiva l'attività dei più ed inviliva gli animi. Anche al cessare di queste cause, durante il primo risveglio del sentimento e della energia nazionale, quel cumulo di ricordi non assunse interesse di attualità, poichè le prime lotte per l'unità della patria deviarono l'attenzione degli Italiani dalle Alpi per attirarla essenzialmente verso i campi lombardi e piemontesi, sul quadrilattero veneto, e, giù, lungo la penisola fino all'estrema Sicilia.
Le maggiori e decisive battaglie delle nostre guerre del 1848-49-59-60-61-66 furono infatti combattute nelle nostre pianure e lungo la penisola. Fra le Alpi non si erano compiuti nel 1848 che fatti d'armi di secondaria importanza per l'esito finale della guerra, come quelli delle Giudicarie, dello Stelvio, delle rive del Lago Maggiore e del Cadore. Le stesse operazioni del 1859 nelle alte valli del Chiese, dell'Oglio e dell'Adda, e quelle compiute nel 1866, su scala più larga, nelle valli suddette, nella valle Sugana e nel Cadore, per quanto interessanti, non ebbero che una funzione secondaria. Però, al pari delle prime, esse dimostrarono che, se la tempra del soldato italiano reggeva al confronto di quella degli avi, si erano dimenticati i loro ammaestramenti. E si sprecava l'abnegazione ed il valore per mancanza di preparazione alla guerra di montagna.
La dura esperienza fatta ed i confronti col passato, indussero a rimontare alle origini, e rievocare la robusta sapienza che i nostri padri avevano maturato e consolidato in tante brillanti campagne combattute sulle Alpi. Apparve allora largamente manifesto: quanto fossero manchevoli nella regione alpina i nostri ordinamenti militari di fronte a quelli di un tempo ed a quello contemporaneo dell'Austria, e quanto fosse urgente l'instaurare le antiche tradizioni alpine degli Italiani.
Nello stesso tempo vennero posti in evidenza, nei progetti della Commissione di difesa, le gravi lacune lasciate, per necessità finanziarie, nella permanente preparazione della nostra frontiera alpina. La situazione finanziaria aveva indotto il Governo in quel momento a rimandare ad altra epoca gli sbarramenti nella regione ad oriente del Piave, sulla frontiera verso l'Austria, e quelli di tutta la frontiera Elvetica, facendo affidamento: su la lontananza dell'Isonzo dal cuore del Regno e sulla neutralità della Svizzera, argomenti non abbastanza rassicuranti. Preoccupato dei pericoli minacciati da tali deficenze, e profondamente convinto della loro gravità, in seguito a ricognizioni compiute in tutta la zona alpina dal 1867 al 1871, presentai sul finire del 1871 alle superiori autorità militari una memoria su quei pericoli, aggiungendo la proposta di prevenirli con l'ordinamento territoriale di una vera leva in massa di genti delle Alpi pronte a mobilitarsi su la frontiera e ad operare attraverso ad esse.

Quintino Sella

Il pensiero di profittare delle trafizioni guerresche delle nostre valorose genti delle Alpi, ispirato da tanti splendidi esempi antichi e recenti, aveva già trovato parecchi fautori presso gli studiosi di cose militari. Il colonnello Ricci aveva ideato di utilizzare almeno, come in altri tempi, le così dette milizie provinciali delle valli alpine. I generali Bava, Beccaros, Massari e Martini avevano caldeggiata l'idea di qualche miglior preparazione nelle Alpi delle forze locali. Ma per vincere le molte difficoltà di una innovazione, in quel momento di economie fino all'osso, (che avevano ridotto l'esercito ad uno scheletro rendendo impossibile ogni partecipazione alla guerra del 1870, e malagevole persino la marcia su Roma) era necessaria una proposta che, contenendo il germe di una completa istituzione, si presentasse, modestamente, attuabile subito, coi pochi mezzi disponibili e senza perdere tempo in discussioni parlamentari.
Con questo concetto, lasciata da parte ogni idea di imitare l'Austria con speciali leggi di reclutamento per le popolazioni alpine, (modalità che avrebbe senza dubbio dato luogo a lunghe discussioni richiedendo l'emanazione di apposita legge) studiai una proposta di ordinamento militare territoriale della zona alpina, che, profittando di facoltà già sancite, potesse essere attuata senza ricorrere a nuove leggi. Fortunatamente quella, recentissima allora, di riordinamento dell'esercito, proposta dal Ministro Ricotti, già in via di attuazione, lasciava un largo margine per introdurre un po' di straforo la desiderata innovazione. Il numero dei Distretti Militari già funzionanti nel 1871 era, di fatto assai minore di quello già autorizzato da quella legge. Perciò nulla impediva che si attuasse una proposta di attuare nelle Alpi nuovi distretti che fossero base di reclutamento e di ordinamento di truppe, assegnate alla difesa delle porte d'Italia. Così pure era già per legge lasciata facoltà al Ministero della guerra di costituire presso i distretti un certo numero di compagnie permanenti, e nulla impediva che quelle compagnie permanenti fossero reclutate fra gli alpini.
La mia proposta di veri distretti alpini non fu attuata integralmente, ma, col tempo, vi si supplì istituendo, nelle Alpi, depositi e magazzini per la pronta mobilitazione. Con Regio Decreto del 15 ottobre 1872 il numero dei distretti militari venne aumentato, e, come è chiarito nella Relazione che precede quel decreto, " fu pure alquanto accresciuto il numero delle compagnie distrettuali permanenti essenzialmente perchè ai distretti verrebbe associata un'altra istituzione: la creazione di un certo numero di Compagnie Alpine, di compagnie cioè reclutate nella regione montana, le quali avrebbero per speciale destinaxione la guardia di alcune valli della nostra frontiera occidentale ed orientale". In attuazione di questo decreto vennero nel marzo 1873 riunite le prime 15 Compagnie alpine, le quali, per il momento, rimasero aggregate ai distretti; ma, affidate a capitani distintissimi per energia, iniziativa ed intelligenza, e dislocate molto opportunamente sulle Alpi, fecero ben presto ottima prova, emulando nelle più difficili escursioni, compiute in armi e bagaglio, gli ardimenti del club Alpino Italiano, sorto da nove anni su iniziativa e l'esempio di Quintino Sella, e già rivaleggiante cogli escursionisti stranieri, i quali fino allora avevano primeggiato nelle ascensioni e nelle illustrazioni delle Alpi nostre.

Tenente Colonnello Davide Menini
(morto a Monte Rajo con gli Alpini)
Sul successivo sviluppo delle Milizie Alpine e su la portata delle mie proposte in proposito ha riferito ampiamente il capitano Bourbon Del Monte il quale pubblicò nel 1898 un interessante opuscolo, rendendo conto delle origini e del battesimo del fuoco degli Alpini; e, più tardi, ne iniziò gli Annali, la pubblicazione dei quali rimase interrotta per molti anni e solo ora promette di riprendere vita nella nuova Rivista di Fanteria. Allora notevole pubblicazione, intrapresa dal capitano Sticca col titolo "Non si passa" ebbe nel 1891 una seconda edizione col titolo Gli Alpini e già se ne annuncia una più diffusa trattazione, comprendente i più recenti fatti di guerra. Non pochi altri interessanti studi su le nostre truppe di montagna formano ormai una vera Bibliografia Alpina, offrendo larga messe agli studiosi. Per non abusare della pazienza di chi mi ha seguìto fin qui non aggiungerò che poche notizie e considerazioni su la istituzione delle truppe di montagna che in 42 anni (6) dalla prima formazione sono oggi arrivate a raggiungere precisamente quasi tutto lo sviluppo al quale ho preludiato nella mia prima proposta e costituiscono oggi otto reggimenti (6) . A queste meravigliose truppe si sono venute aggiungendo le impareggiabili nostre batterie di artiglieria da montagna le quali, oggi finalmente, hannno raggiunto lo sviluppo con insistenza richiesto già da parecchi anni dalla Commissione di Inchiesta per l'Esercito, formato da tre reggimenti. (6) Questi miglioramenti costituiscono il più confortevole progresso rispetto al tempo nel quale, come ebbi a deplorare nella mia memoria del 1871, si lasciavano nei magazzini i materiali dell'artiglieria da montagna, sicchè per impiegarli si doveva prendere muli dal Treno e personale dal reggimento di artiglieria da campagna, come io stesso vidi praticare dal 1867 al 1869, per manovre, ordinate dal generale Pianell, nelle zone alpine.
Altra innovazione felice è la istituzione di Milizie Alpine volontarie, con le norme già adottate per i Volontari Ciclisti-Automobilisti. Come avevo annunciato nella citata memoria (invocando l'esempio dei Bersaglieri Volontari qualificati del Tirolo) quei volontari alpini sono un necessario completamento della nostra leva in massa a difesa delle frontiere. Un ultimo complemento, (che rimane da ordinarsi e che per il momento può trovare un princìpio d'applicazione utilizzando in montagna una parte delle "guide Nazionali Volontari a Cavallo" (istituite per iniziativa dell'avv. Lanza di Mira) è quello di reparti alpini a cavallo (7). Non credo inutile ricordare che i Romani, nell'ordinamento delle Cohortes Alpinorum, avevano non solo delle coorti a piedi (peditatae) ma anche delle coorti miste di pedoni e cavalieri (Cohortes equitatae). Come risulta dagli studi del De Ruggero le coorti alpine dei Romani, quando avevano fanti e cavalli (equitatae), si componevano: se quingenarie (ossia di 500 militi) di sei centurie a piedi e di sei turme a cavallo, forti ciascuna di venti cavalieri; se miliarie (ossia di mille militi) di dieci centurie a piedi e di duecentoquaranta cavalieri, divisi in dieci turme o, seguendo il parere del Mommsen, in otto turme.
Ricordo in proposito che nella iscrizione romana trovata in Dalmazia, nell'antica Salona (Spalato), da me riportata sul Corriere della Sera del 2 gennaio ultimo scorso, si riconoscono le benemerenze e si concede la cittadinanza romana ai militi a piedi ed a cavallo (peditibus et equitibus) della 1^ Legione Alpina colà stanziati. In molte manovre compiute sulle Alpi, tanto nel comando di un Reggimento di fanteria, quanto in quello di una Divisione, ho avuto occasione di constatare i grandi servizi che possono ottenersi da cavalieri bene abituati alla montagna; servizi che, in quei casi, vidi disimpegnati con meravigliosa prontezza da soldati dei reggimenti Lucca e Roma, montati su cavalli sardi, bene allenati. Ma per non distogliere soldati dai Reggimenti, gioverebbe che, sull'esempio dei nostri antichi padri, s'ordinassero presso gli Alpini piccoli reparti di cavalieri, o che, almeno, si desse largo sviluppo alla istituzione delle Guide Nazionali Volontarie a Cavallo, interessando i nostri giovani allo sport dilettevolissimo delle escursioni a cavallo, in montagna, piene di attrattive, fra le nostre Alpi.
Molto potrei aggiungere se non temessi abusare della pazienza dei lettori. Ai più studiosi raccomando di consultare le poche pubblicazioni citate. Il risultato dei ricordi riassunti in queste pagine non può essere che uno; elevare i cuori alla più salda fiducia nel nostro esercito, secondo a nessuno. Al risorto antico valore gli Italiani aggiungano la concordia, e la vittoria coronerà i nostri sforzi. Le grandi speranze, concepite dalla Nazione quando il Padre della Patria chiamò i difensori nati delle Alpi a difesa delle porte d'Italia, furono coronate in quarantadue anni dai più brillanti fatti compiuti, e nella buona fortuna e nella storia, dai Soldati Alpini. Al battesimo del fuoco, al Monte Rajo, essi fronteggiarono impavidi il soverchiante nemico, sopraffatti dal numero non dal valore, e caddero eroicamente al loro posto.
In Libia ed a Rodi si sono coperti di Gloria.
Fino dal primo scontro nell'odierna guerra, superando difficoltà sorprendenti, hanno guadagnato le prime medaglie al valor militare ed il plauso di Vittorio Emanuele III.





note di redazione:

(1) Noblesse oblige: vuole esprimere il significato che "per i valori radicati nell'animo di chi vive in montagna, è spontanea la solidarietà, il mantenere fede, ecc., perchè questi sentimenti sono insiti nella sua natura"
(2) Norico: antica regione danubiana tra la Rezia e la Pannonia, corrispondente all'odierna Austria e a parte della Boemia; città principale Noreia (oggi Neumarict). Divenne provincia romana nel 13 avanti Cristo.
(3) forra: gola di erosione stetta e ripida
(4) finis Italie: la fine dell'Italia
(5) lari: gli dei protettori della casa presso i Romani; erano le anime dei defunti divinizzate
(6) va inteso alla data di pubblicazione dell'artcolo nel luglio 1915
(7) reparti alpini a cavallo: può far sorridere oggi tale proposta che ritengo sconosciuta a molti, ma va considerata nel periodo in cui è stata formulata.


Tratto da:

 

LA LETTURA, rivista mensile del Corriere della Sera, Milano, anno XV n°7 - Luglio 1915

 

 


note di redazione:
* Giuseppe Domenico Perrucchetti, nato a Cassano d'Adda (Milano) il 13 luglio 1839. Avviato agli studi di architettura nell'università (allora austriaca) di Pavia, scappa nel Piemonte libero e segue la carriera militare. Nel 1861 è nominato sottotenente di fanteria e nel 1866 nella battaglia di Custoza si guadagna la medaglia d'argento ed i gradi di capitano. Passa poi nel Corpo di Stato Maggiore e diventa insegnante di geografia militare alla Scuola di Guerra di Torino. Nel marzo 1872 pubblica sulla "Rivista militare italiana" un articolo dal titolo "Sulla difesa d'alcuni valichi alpini e l'ordinamento militare territorriale nella zona di frontiera" dove, oltre alle sue considerazioni, propone la costituzione di forze militari reclutate nella vallate alpine che, per conoscenza specifica dei luoghi, addestramento ed innato carattere, formerebbero formidabili unità difensive del medesimo settore o distretto. In pratica propone la costituzione del Corpo degli Alpini che, come sappiamo, nascono ufficialmente con regio decreto del 15 ottobre 1872 firmato da Re Vittorio Emanuele II. Il nostro Papà continua ad insegnare geografia militare alla Scuola di Guerra di Torino fino al 1885, diventa poi il precettore del duca d'Aosta Emanuele Filiberto. Promosso colonnello nel 1888, quindi generale di Brigata nel 1895, viene promosso al grado superiore di Tenente Generale nel 1900 e ricopre gli incarichi di comandante delle divisioni territoriali di Firenze e poi di Milano. Posto in congedo nel 1904, viene eletto Senatore del Regno. Muore a Cuorgnè (Torino) il 5 ottobre 1916, quando i "suoi" Alpini avevano già avuto il battesimo del fuoco e di sangue in Africa e da un anno nelle montagne del Trentino. Al Generale Perrucchetti, l'Associazione Nazionale Alpini ha dedicato a Cassano d'Adda dove era nato; una targa posta nel portone del Castello Borromeo, nell'omonima Piazza Perrucchetti, inaugurata il 27 giugno 1920 ed un imponente monumento, sempre a Cassano d'Adda, inaugurato il 2 ottobre 1932.

Per ulteriori notizie biografiche, vi sono in internet centinaia di siti che le propongono molto dettagliate.